lunedì 27 febbraio 2012

La penna www.liviocepollina.it

LA PENNA

Oggi è uno di quei giorni in cui il pensiero più ottimista che mi viene è quello di sperare che arrivi al più presto un altro giorno. Non colgo nessun senso di appartenenza in quello che vedo o sento. Mi sento catapultato sulla Terra a recitare una parte non mia. Detesto sentir ridere la gente per nulla, lo trovo irrispettoso verso la mia incapacità di replicarla. Faccio due passi a piedi tanto per dare un senso compiuto al tempo e allo spazio. Cammino, e il ciclico muoversi dei passi accerta lo scorrimento dei minuti. Le vetrine dei negozi senza clienti all’interno sonno avvilenti. Esporre e non vendere. Ostentare senza consensi. Qualche giovane minigonna riesce ancora a catturare la mia attenzione sopita, ma sono sensazioni che si dissolvono velocemente con l’allontanarsi delle fanciulle che le indossano. Ormai mi conosco. Non devo concentrarmi sul disagio che vivo, ma accettarlo. Arriverà un miracolo che lo dissolverà. Saranno dei fili nella mia testa bacata che in un corto circuito risolutore mi faranno riassaporare parvenze di buonumore.
Mi chiedo come molti anziani riescano ad essere sempre sereni. Forse sono riusciti a scrollarsi da addosso l’ingombrante fardello dell’ambizione, tutto ciò che gli arriva dalla vita è un regalo. Sicuramente angosciante ma efficace. D’improvviso la mia attenzione è catturata da un uomo, lo vedo appuntarsi delle cose su un foglio. Si muove con grazia. Con la stessa dolcezza fluida con cui una mamma prende il suo bimbo dalla culla. Sono gesti magici. Deciso: anche io voglio una penna! Ho una grande voglia di una penna! Colorata, bella, sobria ma non troppo sobria. La penna ha un ruolo importantissimo per chi la usa, quasi come l’abito che indossa.
Dal tipo di penna che usa, dal suo modo di estrarla dal taschino, dal modo di giocherellarci, si intuisce perfettamente la personalità dell’individuo. Non c’è da perder tempo, correre in cartoleria e comprarne una. Potrei andare in qualche negozio specializzato, ma “ciò” fretta di penna.
Gli entusiasmi, quando sporadici, bisogna viverli appieno e subito, sono delizie dell’anima ma col difetto della brevità. Entro nel negozio e dirò al tipo che voglio fare un regalo, sarà più clemente con le mie indecisioni, anzi, gli descriverò il destinatario immaginario dell’omaggio - così, ascoltando i suoi consigli, capirò anche cosa pensa di me. Il negoziante è davvero gentile ma è triste. Io adoro le persone gentili ma il piattume esistenziale è profondamente inciso nei suoi occhi. Lo immagino, depresso, coi suoi circa quarant’anni, a vivere ancora con i genitori, stasera mangerà la minestrina con la mamma che gli chiederà se ne vuole ancora, altrimenti lava i piatti e poi guarderà il “telegiornale del primo”. Da ammazzarsi subito.
Io ho bisogno di cibi piccanti, di vedere vallette che sculettano in culottes dentro ad uno studio con pareti azzurre e fucsia. Non sono un porco, ho solo bisogno di colori. Ho bisogno di queste droghe effimere per sentirmi vivo. Ne colgo l’assoluta inconsistenza, a volte è proprio la loro labilità a deprimermi, ma ne ho assolutamente bisogno.
A vedere il negoziante, sempre gentile, ma con la cupezza di uno showroom di bare, sarei spinto ad invitarlo ad una notte all’insegna del piacere più appagante, overdose di Mc Donald’s – mignottone di lusso ed Earth Wind & Fire a manetta. Ma forse non è il caso, sua mamma avrà già apparecchiato la tavola e stasera ha pure preparato la scaloppina con la purea. Da defenestrarsi da soli e con slancio. E le sue penne fanno anche schifo. Senza colori, senza forme, senza un cazzo.
Gli compro un paio di notes tanto per dargli un contentino per il tempo perso, saluto ed esco. Lo vedo già a riposizionare le sue tristi penne nei tristi cassetti del suo triste negozio.
Che a pensarci bene a far belle le penne sono proprio le persone che le portano. Mi ricordo molti anni fa, dietro al banco, il benessere che provavo nel vedere quel signore sui cinquant’anni con la sua semplice Bic, sempre perfettamente posizionata nel taschino della giacca, perfettamente dritta, severamente dritta. La usava spesso per dar vita, scrivendoci delle note sopra, ad un banale pezzo di carta semplice strappato da un umilissimo notes A6.
Lui sì che era un felice. I gesti gli appartenevano. Non erano gli oggetti a surrogargli una felicità ma era la sua gioia di vivere a surrogare di felicità gli oggetti. Un culo della Madonna.
Questi tizi sono tutti uguali. Hanno pochi capelli e sudaticci, un po’ grassottelli, portano gli occhialini e puzzettano un po’. Ma sono felici nel DNA; nati così, con la schedina vincente nell’anima.
Vanno a fare la spesa nei supermercati, non comprano mai cose inutili, lo stretto essenziale e riempiono il bagagliaio della loro auto, vecchia ma così linda da sembrar appena uscita dalla concessionaria, impilando con il calibro le casse dell’acqua e le borse della spesa. Tutto perfettamente squadrato come loro. Lo spazio del bagagliaio si plasma ineccepibilmente ai loro precedenti calcoli. Non ne rimane un centimetro vuoto e nulla si muove. Sorridono sempre. Invidia pura. In casa indossano sempre la tuta e le babbucce. Ci stessero anche solo una mezz’ora per poi ri-uscire, in quella mezz’ora tuta e babbucce.
Io se entro a casa alle 9 di mattina, sapendo che ne ri-uscirò alla 4 del pomeriggio, non mi cambio. L’arco di tempo dalle 9 alle 4 non mi sembra esistere. I grassottelli con gli occhialini, i pochi capelli sudaticci e che puzzettano un po’ vivono il presente. Io no, vivo il futuro e spesso già lo detesto senza ancora sapere come lo stesso avverrà. Mi odio.
Affanculo me e la penna.